grazie a Moroni Ada
Il 1944 è stato un anno particolarmente duro per i miei nonni.
Nonno Goffredo, che ormai non è più tra noi, era arruolato, ma non era andato a combattere al fronte: aveva attuato lo sciopero della fame con lo scopo di divenire secco secco e perciò non adatto alla guerra al fronte.
Durante i continui bombardamenti ad Osimo, egli ricopriva un ruolo importantissimo: munito perfino di un bracciale della Croce Rossa, doveva portare (con un carretto, a piedi) i feriti all'ospedale.
È una fortuna che sia riuscito a sopravvivere, esposto ai colpi del nemico (quando arrivava in piazza, trovava addirittura il portone chiuso e ci voleva del tempo per aprirlo e consentire il passaggio).
Il bombardamento aveva raso al suolo i locali dove attualmente è situato il bar "Quattro più uno" e le schegge delle bombe avevano distrutto le finestre dell'abitazione dei nonni, in Via Strigola.
San Marco era piena di fascisti pronti a far fuoco con i loro mitra.
La situazione era resa ancora più difficile dalla gravidanza di mia nonna e dall'imminente parto: stava per nascere colui che per me, oggi, è lo zio Giuseppe. Egli è nato in un rifugio, il sei luglio 1944, proprio la notte in cui i polacchi sono entrati in città: la nonna stava male e il nonno era in cerca della dottoressa.
Purtroppo, all'ospedale non era permesso l'ingresso proprio al nonno e al piccolo Vincenzo (mio zio) che allora aveva solo due anni: per questo nonna ha deciso di non entrarvi e di rimanere nel rifugio.
Una settimana dopo, sono andati tutti a piedi a Campocavallo e in seguito a Bagnola. Essendo nonna molto religiosa, il piccolo Giuseppe è stato subito portato a battezzare.
Le condizioni di vita erano a dir poco pessime: per bere si doveva prendere l'acqua dal pozzo, i vestiti andavano lavati alle fonti.
Il nonno andava ogni mattina da un certo contadino, Sasso, a rifornirsi di una brocca di latte. Spesso l'offriva anche ai partigiani che trovava per la strada. Quando vi era un bombardamento, invece, si gettava a terra, rovesciando il latte pur di salvarsi la pelle.
L'unico modo di mangiare era con la cosiddetta "tessera del pane". Ai minori di diciotto anni veniva addirittura offerta un po' di marmellata. La nonna e la bisnonna, Virginia, lavavano sempre il pane prima di gustarne quel poco che c'era perché chi lo produceva non "seguiva molto le norme igieniche".
Ci si poteva però rivolgere anche al mercato nero per ricevere la farina, oppure al grossista per un sacco di grano che doveva essere macinato al mulino che si trovava oltre Padiglione, da raggiungere a piedi (non si prendevano quasi mai i cavalli).
Le notti erano particolarmente difficili per due motivi: la pertosse dei piccoli Giuseppe e Vincenzo, accentuata dal fumo nero che usciva dalla lampada ad olio e gli insetti che invadevano i letti (la nonna, piena di tozze provocate dalle cimici, è stata costretta a bruciare le reti più di una volta).
Ci si doveva spostare in continuo, da un rifugio all'altro, ogni giorno.
La televisione non esisteva ancora.
I furti erano numerosi: quando è tornata alla casa che aveva abbandonato, la nonna ha trovato ben poco di quanto aveva lasciato.
La malnutrizione, inoltre, affliggeva praticamente tutti: per quanto fosse pieno luglio, mia nonna portava un cappotto pesante per ripararsi dal freddo causato dalla fame. I dolci e i biscotti se li sognavano, tranne che durante le feste più importanti (Natale, Pasqua, San Giuseppe da Copertino, patrono d'Osimo).
Il sapone non si poteva comprare, ma veniva prodotto in casa (una specialità della mia bisnonna).
Il ferro da stiro non era elettrico, ma andava a carbone.
Insomma, la lista dei disagi era davvero infinita.
Un ultimo pensiero citato dalla nonna, che, come il nonno, ha provato tante paure: "La guerra è brutta e inutile. Solo a ripensarci rabbrividisco ancora".
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